Numerosi
colleghi mi chiedono consigli su come ovviare all'ipotesi in cui nel ricorso introduttivo
sia stata richiesta la sola invalidità, mentre, a chiusura delle operazioni
peritali, il CTU ritiene addirittura di riconoscere l'assistito totalmente
inabile.
Le
strade percorribili sono essenzialmente due:
1)
Possibilità di avanzare nel corso del giudizio domanda di prestazione non
richiesta nel ricorso introduttivo; sull’argomento qualche tempo fa ho scritto un apposito articolo che troverete al seguente LINK.
2)
Possibilità di richiedere la prestazione originariamente richiesta, anche se il
CTU ha riconosciuto un complesso invalidante nettamente superiore (sulla base
del principio “il più contiene il meno”); a fondamento di ciò si vedano le
motivazioni addotte dal collegio giudicante della Sezione Lavoro della Corte
d’Appello di Napoli nella Sentenza n° 6669/07, a seguire dopo il salto.
Sull'argomento si legga anche la DISCUSSIONE NEL FORUM
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Carmine Buonomo
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Sentenza N. 6669/07
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DI APPELLO DI NAPOLI
Sezione controversie di lavoro e di previdenza ed assistenza
composta dai magistrati:
1. dr. Filippo de Caprariis Presidente
2. dr. Pasquale Cristiano Consigliere
3. dr. Gabriele di Maio Consigliere Rel.
riunita
in camera di consiglio ha pronunciato in grado di appello all’udienza del
27/09/2007 la seguente sentenza
SENTENZA
Nella
causa civile iscritta al n. 4088/2004 R.G. sezione lavoro,vertente
TRA
XXXX
APPELLANTE
E
ISTITUTO
NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE – I.N.P.S., in persona del Presidente legale
rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso come da procura generale
alle liti dall’Avv. XX ed unitamente a quest’ultimo elettivamente domiciliato
in Napoli alla via Galileo Ferrarsi n. 4.
APPELLATO
SVOLGIMENTO
DEL PROCESSO
Con
ricorso depositato in data 30/04/02 P.M. adiva il giudice del lavoro di Napoli
onde ottenere nei confronti dell’INPS declaratoria del diritto a percepire il
trattamento di invalidità civile spettante, con le conseguenti statuizioni di
condanna.
L’INPS
si costituiva contestando il fondamento della domanda, della quale si chiedeva
il rigetto.
Espletata
C.T.U. il giudice adito, con sentenza n. 8818/04 pronunciata in data 16/04/04,
rigettava la domanda, con integrale compensazione tra le parti delle spese di
lite.
Con
ricorso depositato in data 19/05/04 P.M. proponeva appello davanti a questa
Corte avverso tale decisione lamentando che il primo giudice aveva erroneamente
disatteso la propria domanda di assegno di invalidità. Concludeva pertanto
affinché la propria domanda relativa a tale prestazione fosse accolta.
Instauratosi
il contraddittorio, l’INPS si costituiva chiedendo il rigetto del gravame.
Alla
odierna udienza di discussione la causa è stata decisa come da dispositivo.
MOTIVI
DELLA DECISIONE
Ai fini
della esatta delimitazione del “Thema decidendum”, giova ricordare che P. M.
aveva richiesto, con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, la
condanna dell’INPS al pagamento in proprio favore della pensione di inabilità,
dell’indennità di accompagnamento ovvero ed in subordine dell’assegno di
invalidità.
Il CTU
incaricato dal Tribunale di verificare le condizioni della P.M. aveva concluso
per la sussistenza di una totale inabilità, peraltro senza necessità di
accompagnamento, in considerazione della capacità di deambulazione e di
compimento degli atti quotidiani della vita da parte della ricorrente.
Il
primo Giudice, pur condividendo in toto le risultanze peritali (della cui
validità nemmeno le parti dubitano, richiamandosi anzi entrambe alle stesse),
ha ritenuto di non poter concedere non solo l’indennità di accompagnamento
(difettandone già il presupposto sanitario) e la chiesta pensione di inabilità
(difettandone i requisiti reddituali, ma nemmeno l’assegno di invalidità, con
la motivazione che “il requisito sanitario richiesto per tale prestazione
postula una ridotta capacità lavorativa che il CTU ha invece escluso”.
L’appellante
critica solo “in parte qua” la sentenza (non discute più quindi delle altre
prestazioni inizialmente richieste), lamentando che l’assegno andava concesso
anche in presenza di uno stato inabilitante, e sussistendo gli altri requisiti
di legge.
Il
rilievo è fondato.
Come
questa Corte ha affermato nell’affrontare analoghe questioni, non può infatti
negarsi il diritto all’assegno di invalidità sul presupposto che l’invalido,
per ottenere tale prestazione, debba rimanere in possesso di una capacità
lavorativa residua che ne consenta il proficuo impiego in mansioni compatibili
con il suo stato.
Come è
noto, l’art. 13 della legge n. 118/71 prevede la concessione dell’assegno
mensile ai mutilati ed invalidi civili di età compresa fra il diciottesimo ed
il sessantacinquesimo anno nei cui confronti sia accertata una riduzione della
capacità lavorativa nella misura almeno del 74% (così elevata dall’art. 9 del
d.lgs. n.509/88), che siano “incollocati al lavoro e per il tempo in cui tale
condizione sussiste”.
Essendosi
manifestato un contrasto di giurisprudenza all’interno della sezione lavoro
della Cassazione sulla definizione del concetto di “incollocato al lavoro” – in
particolare, era controverso se per aversi tale condizione fosse necessaria o
meno l’iscrizione nelle liste speciali di collocamento degli invalidi – le
sezioni unite, con la nota sentenza n. 203/92, precisarono che “incollocato è
colui che ha adempiuto l’onere di un comportamento teso al fine del
collocamento e, ciò nonostante, sia rimasto inoccupato. Questo comportamento –
attese le specifiche provvidenze predisposte dal legislatore con la L. 482/68
sul collocamento obbligatorio degli invalidi – si sostanzia nell’attivazione
dei meccanismi in tale legge previsti, e quindi nell’iscrizione (o nella
domanda di iscrizione) nelle liste speciali di collocamento degli invalidi”. La
Corte concluse dunque che “ la mancata iscrizione (o domanda di iscrizione) in
tali liste si traduce in un difetto del requisito stesso, come tale rilevante
ai fini della decisione sul diritto all’assegno di invalidità: essa non dà
luogo alla mancanza di una prova qualificata dello stato di disoccupazione…. ma
dà luogo alla mancanza di uno dei fatti costitutivi del diritto”.
Da tali
principi alcuni giudici di merito hanno desunto che il cittadino totalmente
inabile, essendo nella impossibilità di essere iscritto nelle liste speciali in
quanto privo di capacità lavorativa residua, non possa ottenere l’assegno,
anche se in possesso del requisito di reddito previsto per tale prestazione, e
possa solo richiedere la pensione di inabilità.
Osserva
il collegio che la situazione del soggetto che non possa ottenere l’iscrizione
nelle liste speciali in quanto inabile al 100% è del tutto simile, sul piano
giuridico, a quella del cittadini invalido in misura pari o superiore al 74%
cui l’iscrizione sia preclusa perché abbia superato i 55 anni di età. Per l’uno
e per l’altro, infatti, l’iscrizione è impedita da un ostacolo di ordine giuridico,
ovverosia da un divieto di legge, pur sussistendo il requisito di fatto di una
invalidità superiore alla soglia del 74%. Ed è proprio la legge a sancire,
anche formalmente, tale equiparazione, giacché è la medesima norma – ovverosia
l’art. 1, 2° comma, della legge n. 482/68, applicabile al caso in esame
trattandosi di fattispecie anteriore all’entrata in vigore della legge n, 68/99
– che esclude dal collocamento obbligatorio sia gli invalidi civili che abbiano
superato il cinquantacinquesimo anno di età, sia coloro che abbiano perduto
ogni capacità lavorativa.
L’affinità
delle due fattispecie, uniformemente disciplinate dalla stessa norma di legge,
comporta la necessità di attribuire all’espressione”non collocati al lavoro” il
medesimo significato in relazione ad entrambe le ipotesi.
Per
quanto riguarda gli invalidi ultracinquantacinquenni che abbiano fatto domanda
all’assegno di invalidità, un orientamento consolidato ed univoco della
Cassazione ha chiarito che non può trovare applicazione il requisito dello
stato di incollocazione del lavoro , inteso come il protrarsi della situazione
di non occupazione malgrado l’iscrizione nelle liste speciali del collocamento,
poiché all’invalido che abbia superato il predetto limite di età è preclusa
l’iscrizione; per cui nei loro confronti deve ritenersi sufficiente la
dimostrazione dello stato di disoccupazione o di non occupazione, che può
essere fornita con gli ordinari mezzi di prova (cfr. Cass., sez. lav., 2-1-01
n.4; id., 28-8-00 n.11271; id., 3-8-00 n. 10205; id., 3-6-00 n. 7432; id.,
19-2-00 n. 1948; id., 15-3.99 n. 2310; id., 23-12-98 n. 12844; id., 1-8-98).
L’orientamento
deve essere pienamente condiviso, giacché accoglie una definizione dello stato
di “incollocazione al lavoro” logica e coerente, identificandola nella
condizione del soggetto che sia privo di lavoro, pur avendo posto in essere
tutto quanto era nelle sue possibilità per trovare una occupazione.
Una
nozione del requisito in esame che imponesse, rigidamente, ed in ogni caso, il
presupposto della iscrizione degli invalidi nelle liste speciali del
collocamento, anche quando tale adempimento sia precluso dalla legge,
comporterebbe una lettura estensiva della norma non giustificata dalla sua
formulazione letterale, dal momento che l’art. 13 della legge parla di soggetti
“incollocati al lavoro”, e non di “iscritti nelle liste del collocamento
speciale”.
Orbene,
“non collocati” vuol dire, in senso letterale, “che non sono stati collocati al
lavoro” e null’altro. E’ evidente che con tale espressione la legge ha inteso
far riferimento anche – ma non solo – al sistema del collocamento pubblico,
avendo voluto riconoscere il beneficio economico agli invalidi che non siano
riusciti a conseguire un’occupazione per il tramite dell’ufficio di collocamento,
o in qualunque altro modo. In questo senso l’interpretazione della Cassazione –
sezioni unite e sezione lavoro -. è univoca e priva di oscillazioni.
E’
altrettanto evidente che il testo della norma indica il requisito in esame con
un’espressione puramente negativa, nel senso che attribuisce la possibilità di
ottenere l’assegno a coloro che “non siano collocati “ al lavoro.
Non si
rinviene, invece, nella formulazione letterale dell’art. 13 la prescrizione di
un comportamento positivo dell’invalido, cioè di un comportamento indirizzato a
conseguire un’occupazione.
Certamente
a questo risultato interpretativo è possibile giungere, come ha fatto la
Suprema Corte, in via di interpretazione logica, dovendo attribuirsi al termine
“non collocati”un contenuto maggiore rispetto al semplice stato di
disoccupazione o di non occupazione ed essendo palese – come si è detto – il
riferimento al sistema di avviamento al lavoro
previsto
dal vigente ordinamento.
Pur
tuttavia non si deve ignorare che già a questa conclusione si perviene
attraverso una interpretazione estensiva del testo di legge, cui viene
attribuito un significato più ampio di quello fatto palese dalle parole usate
dal legislatore.
Per
poter attribuire all’espressione “non collocati” un senso ancora più ampio, in
modo da trasformarla nella prescrizione rigorosa – e quindi formale – di un
adempimento positivo, quale è l’iscrizione nelle liste del collocamento
obbligatorio, fino al punto da escludere dal beneficio dell’assegno gli
invalidi che non abbiano chiesto l’iscrizione perché non sono nelle condizioni
di poterla ottenere, bisognerebbe ricorrere ad una operazione interpretativa
eccessivamente estensiva e poco rispettosa del testo normativo.
Un’interpretazione così severa sarebbe giustificata solo di fronte ad una norma
che esplicitamente condizionasse la concessione dell’assegno al requisito della
iscrizione nelle liste.
Ben più
aderente alla lettera della legge sembra essere, invece, l’interpretazione che
ravvisa nell’espressione “non collocati al lavoro” l’indicazione di uno stato
di disoccupazione (o di non occupazione) non imputabile all’invalido, nel senso
cioè che questi si trovi privo di occupazione pur avendo osservato un
comportamento volto a conseguirla. Fin qui l’estensione del testo in via
ermeneutica può ritenersi giustificata dal riferimento ai principi generali
dell’ordinamento , ove ricorrono ripetutamente i concetti di “ordinaria
diligenza” o di “diligenza del buon padre di famiglia”, per cui sembra logico
richiedere anche all’invalido disoccupato che aspiri alla prestazione
assistenziale un comportamento caratterizzato da un normale grado di diligenza.
Oltre
questo limite, invece, si profila il rischio di uno stravolgimento del testo
dell’art. 13, neppure giustificato dalle esigenze della logica e dell’equità.
Infatti,
negare il beneficio della prestazione assistenziale a cittadini invalidi e
disoccupati cui la legge – per ragioni obiettive a loro non imputabili – non
consente l’iscrizione al collocamento speciale (perché di età superiore a
quella utile per il collocamento o perché totalmente inabili al lavoro, come
nel caso in specie) finirebbe col condurre a conseguenze inaccettabili,
particolarmente evidenti nel caso degli inabili.
In
particolare, si giungerebbe all’assurdo che nel caso di due cittadini forniti
di reddito uguale, inferiore al limite previsto dalla legge per l’assegno,
l’uno invalido al 74%, l’altro al 100%, solo il primo potrebbe ottenere una
prestazione economica in quanto iscritto al collocamento speciale.
Il
secondo, invece, pur essendo maggiormente svantaggiato rispetto alla
possibilità di provvedere al proprio sostentamento, si vedrebbe negato
l’assegno in quanto non iscrivibile al collocamento.
E
potrebbe vedersi negata anche la pensione di inabilità, qualora il proprio
reddito cumulato con quello del coniuge – reddito complessivo cui, secondo un
cospicuo orientamento giurisprudenziale cui questa Corte ha aderito in numerose
precedenti decisioni, occorre far riferimento ai fini del conseguimento della
pensione – superasse il limite massimo fissato dalla legge per tale
prestazione.
Nella
medesima situazione reddituale, invece, l’invalido al 74% avrebbe diritto a
percepire l’assegno, sol perché iscritto nelle liste del collocamento.
Altrettanto
illogica sarebbe l’interpretazione qui criticata nel caso di un cittadino
titolare di assegno – invalido in misura compresa fra il 74% e il 99% e, per
tale condizione, iscritto nelle liste del collocamento speciale – che a causa
dell’aggravamento del proprio stato di salute venisse riconosciuto totalmente
inabile al lavoro e cancellato quindi dalle liste: ebbene costui, solo per effetto
dell’aggravarsi del grado di invalidità (evento che lo rende ancor più
bisognoso di pubblica assistenza), si vedrebbe revocata la prestazione
assistenziale di cui già fruisce e rischierebbe di restare escluso da qualsiasi
beneficio economico nel caso che il reddito “cumulato” sia superiore alla
soglia prevista per la pensione.
L’irrazionalità
di simili effetti porrebbe gravi dubbi di lesione dei principi costituzionali,
con particolare riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione.
Come ha
ripetutamente affermato la Corte Costituzionale, è compito del giudice
ordinario, chiamato ad applicare una norma di legge suscettibile di diverse
interpretazioni, taluna delle quali presenti dubbi di costituzionalità,
verificare se sia possibile individuare una soluzione esegetica conforme ai
principi della Costituzione, prima di rimettere la norma al vaglio del giudice
delle leggi.
Il
rispetto di questo principio costituisce, dunque, un ulteriore argomento per
preferire l’interpretazione che consente anche al cittadino totalmente inabile
di conseguire l’assegno di invalidità, purché in possesso del requisito di
reddito prescritto.
L’esistenza
del requisito reddituale previsto per l’assegno è stata, tuttavia
documentalmente provata solo per gli anni 2001 e 2002.
In
conclusione, quindi, deve riconoscersi condannarsi l’appellato a corrispondere
i ratei di assegno di invalidità spettanti all’appellante dal 1-1-2001 al
31-12-2002, oltre accessori come per legge dalla decadenza di ciascun rateo
fino all’integrale soddisfo.
Consegue
altresì la condanna dell’INPS soccombente alla rifusione di metà delle spese
del doppio grado di giudizio, liquidate come in dispositivo e con distrazione
in favore del procuratore antistatario, ravvisandosi nel parziale rigetto della
domanda e nella peculiarità e complessità delle questioni trattate giusti
motivi per compensare fra le parti la quota residua.
P.Q.M.
La
Corte così provvede:
a)
accoglie per quanto di ragione l’appello e, per l’effetto, in riforma
dell’impugnata sentenza, condanna l’INPS al pagamento in favore dell’appellante
dei ratei di assegno di invalidità spettanti dal 1-1-2001 al 31-12-2002, oltre
accessori come per legge dalla data di maturazione dei singoli ratei al
soddisfo;
b)
compensa per metà tra le parti le spese del doppio grado e condanna l’INPS al
pagamento della residua metà, liquidata in euro 450,00, di cui euro 200,00 per
onorari, per il primo grado ed in euro 600,00, di cui euro 250,00 per onorari,
per il presente grado, con attribuzione.
Così
deciso in Napoli, li 27-9-2007
Il
consigliere est.
Il
Presidente
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